Introduzione
“Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola”.
“Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta”.
“La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto”. Il poeta calabrese Leonida Rèpaci fa dire questo al Signore, nella sua celeberrima “favola” “Quando fu il giorno della Calabria”1. Un Dio che, pur avendo promesso a se stesso di fare della Calabria un capolavoro, consentì al Diavolo, in un attimo di distra-zione, di accompagnare le bellezze della sua creazione, con le rovine del Male.
Il Creatore avrebbe, così, “delegato” ai calabresi la responsabilità di essere protagonisti attivi del loro sviluppo e della loro crescita.
Ma, nella storia, i calabresi sono stati, in qualche modo, attori della loro crescita?
La maggior parte degli storici afferma che una Calabria coesa, compatta, solidale e unitaria non è mai esistita, né in senso geo-grafico, né in senso etnico, né in senso culturale.
Esistono storie di dominanti e storie di dominati: quella dei ca-labresi è, purtroppo, una storia di dominati, di millenaria miseria, di sfruttamenti, soprusi e angherie.
L’obiettivo di questo lavoro non è stato quello di scrivere una storia della Calabria, dalle origini ai giorni nostri (questo lo la-sciamo agli storici), ma quello di tentare di identificare le cause che hanno rallentato, in modo significativo, il suo sviluppo sociale, economico e culturale.
Nei due primi due capitoli (“Degrado del territorio, miseria ed immobilismo sociale dalla colonizzazione greca all’Unità d’Ita-lia” e “Dall’Unità d’Italia alla Ricostruzione”), abbiamo, infatti, cercato di dimostrare come, per circa duemila anni, si sono veri-ficati eventi che hanno impoverito questa regione ed isolato, sem-pre più, le sue popolazioni.
Gli invasori costruivano e distruggevano, a loro piacimento, cosicché la popolazione autoctona, privata della propria identità e del proprio territorio, era costretta a rifugiarsi, in molti casi, nelle zone interne e più impervie della regione, a causa delle vendette, delle ritorsioni e dei saccheggi da parte dei vincitori.
La stessa colonizzazione greca non consentì l’integrazione delle popolazioni locali nella cultura degli invasori che preferi-vano, invece, vivere in sistemi chiusi, pronti solo ad allargare la propria egemonia sulle colonie e territori limitrofi.
L’isolamento delle popolazioni residenti fu reso ancora più marcato da parte dell’impero romano che, dopo avere confiscato quasi tutti i loro beni e devastato le loro città, le costrinse a lasciare le coste e ritirarsi nell’entroterra, provocando, nelle aree marine, desolazione, miseria e malaria.
I secoli successivi furono caratterizzati dal terrorismo degli in-vasori, dall’oppressione del sistema feudale, dall’“infedeltà” della chiesa, da uno sfruttamento sistematico delle masse contadine, dal brigantaggio, dalle grandi ondate migratorie, dallo “stallo” fasci-sta, dai fallimenti della ricostruzione e da una industrializzazione fantasma.
Tali eventi hanno consolidato una serie di mali che, oggi, sono alla base della non crescita di questo territorio, già isolato geogra-ficamente, a cui si sono aggiunti, a partire dal cosiddetto regiona-lismo democratico, meno cruento e meno barbaro, ma molto più subdolo, ulteriori mali quali la gestione clientelare e parassitaria delle risorse pubbliche e le lotte tra campanili.
La responsabilità di queste nuove criticità va attribuita, princi-palmente, alla classe politica locale, a causa della sua negligenza a disegnare processi di prospettiva, della sua indifferenza verso i continui danni praticati sul territorio e della sua insensibilità ri-spetto alle reali esigenze dei cittadini.
Questo stato di cose ha, progressivamente, sterilizzato ogni ten-tativo di rafforzamento del tessuto economico/produttivo regionale e di creazione di un società civile matura ed organizzata.
Nella mente della gente si è creata, perciò, nel tempo, una no-tevole diffidenza nei confronti delle istituzioni, considerate ingiu-ste, inique e poco rispettose dei suoi diritti.
La prima parte di questo lavoro, pertanto, deve essere conside-rata, come un “percorso-contesto” nel quale è nato e si è sviluppato il regionalismo a cui abbiamo dedicato quasi tutto il nostro lavoro.
Poiché, in ogni caso, il nuovo corso che ha caratterizzato la na-scita delle regioni è da considerarsi anche l’erede del periodo della ricostruzione, abbiamo ritenuto opportuno ed utile dedicare un ap-posito capitolo a questa fase propedeutica all’avvio della politica regionale, incentrando la nostra analisi sulla questione calabrese.
Noi siamo fermamente convinti che i primi vent’anni dell’in-tervento straordinario hanno rappresentato un momento fonda-mentale e strategico, nel quadro delle trasformazioni avviate nell’intera area meridionale, per il miglioramento delle condizioni di vita della società meridionale, e di quella calabrese, in partico-lare, che viveva in una condizione di degrado e di miseria eleva-tissimi.
Tuttavia, bisogna sottolineare che esso non è riuscito a raffor-zare la competitività del sistema produttivo meridionale, la-sciando, praticamente, invariato il divario tra Nord e Sud, specialmente a livello industriale.
Infatti, come viene specificato nel capitolo 3 di questo la-voro,“Dalla Ricostruzione all’avvio del Regionalismo”, tutta la serie degli eventi verificatisi fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ha dimostrato come la politica economica pubblica e le di-namiche attuative dell’intervento straordinario furono molto in-fluenzate dal capitalismo industriale del Nord d’Italia, il cui obiettivo prioritario era quello dello sviluppo e del rafforzamento della competitività, solo, delle regioni settentrionali.
Le misure di politica territoriale, in effetti, non furono sentite come componenti importanti della politica economica in senso lato e, quindi, non furono integrate in quest’ultima.
Inoltre, con l’avvento del regionalismo, in Calabria, parados-salmente, le cose peggiorarono.
Fu proprio in questo periodo, infatti, che si sviluppò un uso di-storto delle risorse pubbliche, quando la Cassa per il Mezzogiorno delegò, senza un coordinamento ed un controllo adeguato, la rea-lizzazione di molte opere ad una serie di Organi ed Enti decentrati dello Stato (Consorzi di Bonifica, Opera Sila e Geni Civili) che divennero Enti strumentali o Uffici al servizio del potere politico regionale e locale, trasformando, così, quasi tutte le risorse stra-ordinarie, destinate alla Calabria, in strumenti di potere per la su-premazia dei territori.
Tutto ciò contribuì ad indebolire, ulteriormente, il già fragile tessuto economico della Calabria ed a spingere la classe politica locale a dare priorità alle piccole questioni legate all’emergenza, al fine di soddisfare clientele e localismi, piuttosto che a superare le criticità strutturali che attanagliavano la regione.
Dal canto suo, il Governo centrale aveva, ormai, istituzionaliz-zato la strategia dell’ “aggiuntività sostitutiva” (praticata ancora oggi), nel senso di ridurre il trasferimento delle risorse pubbliche ordinarie destinate alla regione, non appena venivano programmati interventi aggiuntivi (vedi, in particolare, leggi speciali per Cala-bria e risorse comunitarie).
In questo gioco delle parti, nasce la Regione Calabria che, come verrà illustrato nei capitoli 4 e 5 del presente lavoro (“I primi trant’anni di regionalismo in Calabria (1970/2000)” e “La Calabria dei Governatori”), si rivela un Ente incapace, sin dall’inizio, di avviare un percorso strutturale per la crescita sociale e lo sviluppo economico del sistema regionale: un regionalismo incerto e por-tatore di interessi ed affari che nulla avevano a che fare con i veri problemi dei cittadini.
Inoltre, l’incertezza politica nell’azione di governo (21 giunte in 30 anni di vita dell’Istituto regionale), la quasi totale assenza di collegialità nelle decisioni degli Esecutivi, l’incapacità dell’as-semblea regionale di svolgere a pieno i propri compiti statutari, i localismi, l’assistenzialismo, il clientelismo, la criminalità orga-nizzata (sempre più potente ed arrogante), la programmazione fan-tasma, il cattivo legiferare, la burocrazia parassitaria e l’assenza di una società civile organizzata, hanno impedito alla Calabria di crescere.
Purtroppo, neanche l’avvento dei “Governatori” è riuscito a dare segnali concreti di discontinuità, rispetto al passato.
Infatti, la Calabria, dopo circa 15 anni di governatorato, conti-nua ad essere una regione dove quasi nulla si trasforma.
A questo proposito, il penultimo capitolo (“La velocità immo-bile”) del nostro lavoro analizza le debolezze strutturali e le “va-riabili culturali” che hanno immobilizzato questa regione afflitta, sempre più, dall’emarginazione economica e da un processo di in-vecchiamento senza precedenti.
Oggi, ci troviamo di fronte ad un sistema sociale, economico e territoriale che non riesce a confrontarsi, in modo adeguato, con le sfide della globalizzazione e dell’allargamento dell’Unione Eu-ropea; una regione che fa fatica a trovare strategie di adattamento rispetto alle mutevoli regole imposte dal veloce ritmo dei muta-menti: una regione refrattaria, in termini di crescita generale, a tutte le sollecitazioni che provengono dall’interno (anche se poche) e dall’esterno.
In effetti, se si è registrato qualche mutamento, esso non è certo da attribuire ad una capacità autogena del sistema regionale di pro-durre ricchezza, ma ad un semplice cambiamento nella composizione della domanda derivata da un sostegno pubblico assisten-ziale che ha raggiunto ormai il 75% dell’incidenza sulla produ-zione della ricchezza regionale.
Un simile stato di cose ha creato delle perversioni molto peri-colose che tendono a portare il cittadino a vivere in un clima di insicurezza sociale e di illegalità diffusa, dove i suoi diritti ormai si identificano con lo scambio di favori.
Nell’ultimo capitolo, abbiamo cercato di individuare, comun-que, i possibili percorsi per uscire da questo lungo tunnel, partendo dal presupposto che i veri problemi da risolvere sono di natura etica e culturale.
Questo significa che, per una regione come la Calabria, occor-rono misure in grado di superare l’emergenza e la straordinarietà, attraverso un alto livello di sensibilità ai bisogni della società e del territorio, unitamente ad una cultura della consultazione e della concertazione tra i cittadini e le istituzioni.
Oggi più che mai, infatti, è necessario fornire un quadro, coe-rente e continuo nel tempo, di principi, valori, norme e regole, al-l’interno del quale inserire delle incisive strategie di sviluppo.
La Calabria, in verità, non è un deserto indistinto; ma, senza la conoscenza e la comprensione dei mali antichi e storici della no-stra regione, è impossibile individuare i percorsi più adeguati, per poter operare una svolta rispetto alla situazione di stallo ed immo-bilismo del sistema regionale.
Occorre, quindi, che gli attori istituzionali, quelli economico/pro-duttivi, quelli finanziario/creditizi ed una società civile più organiz-zata avviino “il dialogo delle opportunità”; un patto, cioè, per la Calabria, al fine di valorizzare le sue specificità e peculiarità e per fortificare, in particolare, quel tessuto produttivo delle microimprese locali che, pur essendo il vero motore dell’economia regionale, non hanno volto perché non sostenute ed assistite adeguatamente.
Questi soggetti devono impegnarsi, pertanto, a definire un co-dice etico, a sostegno di una “nuova Calabria”, per rafforzarne il potenziale endogeno e per fare sì che i principi di solidarietà e di reciprocità diventino la costante del vivere comune.
Inoltre, occorre che il sistema istituzionale, la scuola, la fami-glia, e la chiesa, diventino un contenitore solido, per consentire ai giovani di diventare, domani, i veri custodi di un metodo di lavoro efficace, legittimo, trasparente e coerente e per permettere loro di essere fieri di appartenere ad una regione che sappia apprendere e crescere.
Dal canto nostro, ci auguriamo che questo lavoro possa rappre-sentare un utile strumento di riflessione e di stimolo per tutti coloro che intendono dare, ai diversi livelli di responsabilità, un concreto contributo per la costruzione di un modello di sviluppo in grado di rafforzare l’unità nella diversità e porre fine alla solitudine di una popolazione a cui è mancata la forza di fare rete e la capacità di saper lavorare insieme, per un benessere sociale migliore.
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